DOPO LA PANDEMIA

DOPO  LA  PA N D E M I A

Conversazione  con  il  sociologo  e  pedagogista Johnny  Dotti

Ripartire dal  silenzio

di  MARCO BELLIZI

(L’Osservatore Romano del 17 aprile 2020)

 

Il silenzio, il vuoto, l’immobilità, la stessa sofferenza, piombata nelle vite  di  tutti  gli  uo-

mini  veramente  come  un  ladro  nella  notte,  sono  ormai  realtà  quotidiane  per  ognuno  di  noi.  A  differenza però  di  molti  di  noi,  Johnny Dotti,   scrittore,   pedagogista,   imprenditore  sociale  e  docente  a  contratto  di  Analisi  e  gestione  di  fenomeni     sociali     complessi     presso l’Università  cattolica  di  Milano,  ritiene  che  la  vera  sfida,  per  il  futuro,  non  sia  trovare  il  sistema  per superarle,  queste  scomode  compagne,  quanto  essere  capaci  a  non  lasciarle  andare  via.  Lui,  bergamasco, il  virus  è  stato  costretto  a  guardarlo in  faccia,  in  famiglia,  mentre  nella cittadina  lombarda  i  lutti  si  sommavano  ai  lutti  e  la morte  era,  ed  è ancora,  una  sorella  piuttosto  invadente.   Indugiando   colpevolmente negli   stereotipi,   si   potrebbe   dire che,   da   bravo   bergamasco,   Dotti sia  un  uomo  animato  da  una  sana idiosincrasia   per   gli   orpelli,   un amante  della  concretezza  e  con  un malcelato  gusto  nello  scardinare  gli schemi.   Insomma,   uno   di   quegli intellettuali  che  normalmente  vengono  definiti  scomodi.  Almeno  da chi  ritiene  che  la  vita  sia,  o  debba essere,  una  comoda  passeggiata  fra le  proprie,  granitiche,  certezze.

In  questo  tempo  di  grandi  dubbi  sembra  che  l’unico  punto  fermo  sia  il  seguente:   non   saremo   più   gli   stessi. Qualcuno  comincia  a  pensare  che  sia già  un  luogo  comune.  Che  ne  dice?

Dico  che  non  è  un  automatismo. Dico   che   questa   situazione   interpella   profondamente   la   nostra   libertà   e   la   nostra   responsabilità. Non  c’è  alcun  automatismo  in  virtù del  quale  siccome  c’è  stato  questo trauma,  allora  c’è una  trasformazione.   I   traumi   per   trasformarsi in cambiamento,  in  cose  nuove,  hanno  bisogno  anzitutto  di  essere  nominati, accolti, accettati. E poi hanno  bisogno  di  essere  interpretati.  Mi  sembra  che  i  segnali  che  arrivano  ancora  adesso, mentre  siamo in  questo  difficile  momento,  siano ambivalenti,  come  quasi  tutte  le  cose  della  vita  dell’uomo,  per  altro. Dipenderà  da  come  la  nostra  libertà  risponderà  a  queste  sollecitazioni,  a come  sappiamo leggerle.  Se si vede  solo  l’aumento  della  richiesta di  sicurezza  o  un  maggiore  intervento  delle  autorità  affinché  ci  garantiscano  il  futuro,  è  chiaro  che andremo  verso  una  regressione  statalista   da   una   parte   e   l’aumento della  tecnica  statalista  dall’altra. È   la   preoccupazione   che   comincia   a farsi    largo    in    molti…  Intellettuali, analisti,   politologi,   fra   questi,   di   recente,  l’israeliano  Yuval  Noah  Harari,  mettono  in  guardia  contro  il  pericolo  che  politici  irresponsabili,  che  fino a ieri hanno screditato scienza, autorità  pubbliche  e  mezzi  di  comunicazione,  possano  essere  tentati  di  imboccare   la   strada   dell’autoritarismo, sostenendo  che  non  si  può  essere  sicuri che  i  cittadini  facciano  la  cosa  giusta di  fronte  a  un’emergenza  come  quella che  stiamo  attraversando,  perché  d’ora in  poi  vivremo  con  il  pericolo  che  si ripeta…

Naturalmente  non me  lo auguro, ma  è  un’ipotesi  possibile.  È  chiaro che  se  i  confini  dei  continenti  si  richiuderanno  andremo  verso  situazioni  in  cui  bisognerà  ripensare  a mercati  economici  locali,  nei  quali paesi   come   l’Italia,   per   esempio, che  vive  di  esportazioni,  non  so  cosa  potranno  fare.  Se  lo  chiede  a me,  io  suggerirei,  suggerisco  a  me stesso,  a  chi  voglio  bene,  agli  altri, di  ripartire  da  ciò  che  ci  sta  dicendo  la  nostra  interiorità,  la  nostra spiritualità.  Io  credo  che  la  componente   intellettuale,   la   componente sensibile,  che  ci  aiutano  a  “dare  le forme”,  debbano  farsi  ispirare  un  po’ di  più  da  quello  che  lo  spirito  ci  dice  di  fronte  a  questi  fatti,  altrimenti temo  che  ciò  che  abbiamo  appreso negli  ultimi  300  anni  continueremo  a ripeterlo,  per  cui  ci  sarà  una  deriva tecnocratica,  ci  saranno  forme  di  razionalismo  esasperato,  forme  economiche  sempre  più  fredde.  Io  non  lavoro  per  questo.  Perciò  dico  che  oggi   lavorare   per   il   futuro   significa mettersi  nella  condizione  di  generarlo,  altrimenti  le  dichiarazioni  ottimistiche sono un  po’ da  mago  Otelma, con  tutto  il  rispetto.

Il   mondo   si   trova   a   sperimentare   un gigantesco  mea  culpa,  certamente  ispirato  dalla  sofferenza  e  dalla  paura  ma non  si  sa  ancora  quanto  onesto  e  fecondo.

Definire   ciò   che   dovremmo   essere sembra   francamente   abbastanza   facile. Ma  sappiamo  come  diventarlo?

Intanto  è  emerso  in  maniera  lampante  che  siamo  fragili.  Continuiamo  ancora  con  gli  stessi  comportamenti,  ancora  nel  XXI secolo,  quando  malgrado  tutta  la  nostra  potenza, i  nostri  grandi  strumenti  di  comunicazione,   l’uomo   è   fragile,   io   sono fragile, lei  è fragile, la mia  famiglia è fragile,  l’Italia  è  fragile.  Fino  a  ieri quello che  abbiamo fatto è  provare a riparare  questa  fragilità.  Viviamo  circondati  da  terapie:  appena  emerge un   problema   dobbiamo   risolverlo. Questa  non  è  più  la  strada.  E  riconoscere  la  fragilità,  nelle  mie  parole da  cattolico,  significa  “mutualizzarla”,  incontrare  l’altro,  incontrare  la fragilità  dell’altro.  La “soluzione” sta nella  condivisione.  Del  resto,  questo nella  storia  ha  portato  alla  scoperta delle  grandissime  forme  dell’economia:   banalmente   le   cooperative,   il misericordie,  le  banche  popolari,  le banche  di  credito  cooperativo.  Sono tutte  forme  di  mutualizzazione  del bisogno.  La  novità  oggi  sta  nel  fatto che  dobbiamo  mutualizzare  bisogni diversi  tra  persone  diverse.

Però  la domanda  di fondo  è  questa:  è la  fragilità  un  principio  per  cui  operare?

Voglio  dire:  non  perché  sia  evitata  o superata,  ma  perché  diventi  generativa  (perché  è  da  lì  che  viene  fuori  la vita)?  Io  penso  di  sì,  lavoro  perché sia  così.  La  tentazione  diabolica  di superare  di  nuovo  la  fragilità  con  la potenza  è dietro  l’angolo.  La si  vede già:  troveremo  un  altro  vaccino  e  saremo  a  posto;  risistemeremo  i  conti pubblici  e  saremo  a  posto.  Per  carità,  sono cose  importanti,  i  vaccini e  i conti  pubblici.  Ma  non  sono  quelli che  ci  portano  in  una  civiltà  umana più   piena,   più   bella,   più   giusta.

Quella  è  la  strada  di  prima.  E  la strada  di  prima  porta  a  dove  siamo adesso.

Siamo  stati  tutti  proiettati  in  una  dimensione  ristretta,  nella  quale  l’orizzonte  che  si  presenta  davanti  ai  nostri  occhi  non  va  al  di  là  spesso  di  una  finestra,   di   un   cortile.   Per   contrappasso siamo  esortati,  quasi  condannati,  a  ridisegnare   l’avvenire.   Con   quali   strumenti?

Faccio  un  esempio:  un’altra  grande  evidenza  di  oggi  è  la  solitudine. La  solitudine è  un  valore:  non è  una cosa  da  evitare.  Il  problema  semmai è  che  non  diventi  isolamento.  Affinché  sia  un  valore  però  serve  la  capacità  di  vivere  un  viaggio  e  un  mondo interiore.  Lo dico  con  parole mie,  visto  che  mi  sono  interessato  molto  a san  Giuseppe:  serve  vivere  il  mondo invisibile,  che  è  tanto  reale  quanto quello  visibile.  L’invisibile  è  una  dimensione  fondamentale  della  realtà. La  solitudine  del  resto  è  un  riconoscimento   dell’altro.   Se   non   sapessi che  c’è  un  prossimo,  non  ti  potresti definire  “solo”.  Ora,  fino  a  ieri  questa  benedetta  solitudine  è  stata  completamente  allontanata.  Tutti  siamo scappati   dalla   solitudine.   Abbiamo cercato  un  mondo  di  emozioni,  di consumi,  facendo  finta  che  non  esista. Questo  è il  principio di  base per rimodellare  forme  comunitarie,  di  relazione  con  gli  altri.  Se  non  si  fa questo  torneremo  tutti  a  correre  come  dei  criceti  dentro  lo  gabbia,  che è  quello  che  abbiamo  fatto  finora. Una  gabbia  molto  tecnologica…

Noi  abbiamo  vissuto,  in  particolare  ultimamente,  in  un  tempo  binario.  Il  mondo  digitale  è  molto  bello, molto  interessante. Ma  ha un  grande limite:  è  0  e  1.  E  ha  un  bisogno  costante  di  essere  riempito.  Aborre  il silenzio.  Il  vuoto  invece  è  un  vuoto costitutivo,  insieme  al  silenzio,  per dare forma alla  vita. Perché le parole vengono  dal  silenzio  e  tornano  al  silenzio.  Non  c’è  parola  feconda  che non  viene  dal  silenzio.  Se  lei  sta  di fronte  alla mamma  o a  un amico  che sta  morendo,  il  suo  silenzio  rende profonde  le  sue  parole,  anzi  invita anche  al  suo  silenzio.  La  stessa  cosa negli  amanti,  che  generalmente  sussurrano.  La  parola  ha  una  dimensione  profondissima  col  silenzio.  È  vero che  nel  Vangelo  c’è  scritto  che  in principio era il  logos. Ma “il” principio  non  era  il  logos,  era  il  silenzio.

Questo  ci  dà  delle  indicazioni  sociali?  Delle  indicazioni  politiche?  Delle indicazioni    economiche?   

Assolutamente  sì.  Banalmente,  bisogna  dare peso  alle  parole.  Le  parole  non  sono

termini  che indicano  qualcosa, le  parole  hanno  il  potere  di  far  nascere  e uccidere  le  cose.  Pensi cosa  vuole  dire  questo  nella  politica,  pensi  nella relazione  con  i  figli,  con  le  persone cui  si  vuol  bene.  Recuperare  il  silenzio  nelle  relazioni  umane  vuol  dire recuperare  la  parola.  Questo  è  un  invito  enorme  che  ci  viene  oggi  dalla realtà,  da  tutta  questa  morte  che  ci circonda.

Le   immagini   delle   strade   vuote,   delle piazze   deserte,   sono   bellissime   per   un verso  ma  dall’altro  comunicano  più  di ogni  altra  cosa  il  senso  del  nostro  fallimento.  Eppure,  nonostante  i  divieti,  cominciano  di  nuovo  a  girare  immagini di  persone  che  si  assembrano  nei  viali consueti    dello    shopping,    nei    mercati all’aperto.  È  un  insopprimibile  bisogno di  socialità  o  un  incontrollabile  terrore del  vuoto?

Noi   abbiamo   giocato   a   riempire tutto.   Il   consumo   compulsivo   cui siamo  stati  allenati  negli  ultimi  cinquanta  anni,  non  è  stato  altro  che una  grande  fuga  dal  vuoto.  Noi  non lo  reggiamo,  il  vuoto.  Abbiamo  bisogno di   riempirlo costantemente. Questo  tempo ci  chiede invece  di attraversarlo,   di   farcene   attraversare. L’immagine   del   Papa   nella   piazza San   Pietro   deserta   è   un’immagine forte  perché  trasmette  il  coraggio  di attraversare   il   vuoto   della   vita.   Le forme   sociali,   le   forme   umane,   le forme   affettive,   nascono   tutte   dal vuoto.  Il  desiderio  non si  accende  se non  c’è il  vuoto. Le  stelle non  riesco a  vederle,  se  c’è  di  mezzo  il  fumo, devo  avere  un  cielo  sgombro,  devo essere  al  buio.  Questo dice tante cose, sui  tempi  del  lavoro,  sui  tempi del riposo, sui tempi della meditazione,  sui  tempi  che  non  sempre  devono essere  vissuti di  corsa, accelerati,  quando  ogni  tanto  bisogna  andare  più  lenti.  Vede…  vuoto,  silenzio  e solitudine  sono  forme  dell’ “abitare”. Se  lei  vive  in  un  “alloggio” è  evidente  che  non  può  vivere  nel  vuoto,  nel silenzio,  nella  solitudine:  impazzisce.

“Alloggio”  è  una  parola  che  abbiamo  preso  e  applicato  artificialmente alle  case  per  gli  uomini.  Fino  al  secolo  scorso  si  usava  per  i  soldati  e per  gli  animali.  Non  ci  può  essere un  “alloggio”  per  una  famiglia.  Ci deve  essere  una  “casa”,  che  contempli  degli  spazi,  delle  relazioni,  che contempli  un  dentro  e  un  fuori.  Lo stesso  vale  per  il  termine  “appartamento”,   che   viene   dalla   tradizione imperiale  portoghese  e  francese.  Ma gli  appartamenti  in  quel  caso  stavano  dentro  alle  regge.  La  casa  invece non  è  un  appartamento  e  non  è  un alloggio:  è  il  luogo  e  il  tempo  in  cui le  nostre  relazioni  fioriscono  perché sono  custodite  come  in  un  nido  ma crescono  perché  vengono  messe  dentro  una  rete.  Perché  la  casa,  come  la famiglia,  è  contemporaneamente  un nido  e  una  rete.  I  nostri  paesi,  un tempo,  erano  costruiti  rispondendo a  questo  concetto:  la  piazza,  i  vicini, le    case    da    ringhiera,    le    cascine. Guardi, le cose  che sto dicendo sono assolutamente     “tradizionali”.     Ma non  hanno  a  che  fare  con  l’antiquariato,  hanno  a  che  fare  con  il  passaggio di  un principio. Ora  noi dobbiamo  consegnare  questi  principi,  trasformati,  alle  nuove  generazioni.  Ma senza   interiorità   non   riusciremo   a farlo.  Dico  una  cosa in  più:  negli  ultimi  anni  si  è  fatta  confusione  tra beni  pubblici  e  beni  comuni.  I  beni comuni  non  sono  beni  pubblici.  Per questo  io  temo  una  statalizzazione. Dire  che  la  nostra  vita  è  legata  a quella  degli  altri  non  vuol  dire  tornare   a   immaginare   uno   stato   alla Hobbes,  che  impone  le  proprie  leggi a  tutti  con  la  forza  e  la  violenza.  Significa  fare  un  passo  avanti  in  senso democratico.  I  beni  comuni,  il  welfare,  la  sanità,  la  scuola,  sono  beni di   tutti.   Le   forme   per   dargli   vita, perché  tutti  ne  partecipino,  non  sono  per  forza  la  fiscalità  generale,  la burocrazia,  le  leggi.  Sono  anche  forme  di  autorganizzazione,  di  autolimitazione  del  profitto,  di  generazione  e  distribuzione  del  valore  dentro la   libertà.   Bisognerebbe   riprendere don  Sturzo,  quello  che  diceva  a  cavallo  della  Grande  guerra  e  dell’epidemia  di  spagnola  (guarda  caso),  così  come  noi  siamo  fra  la  grande  crisi economica  del  2007  e  ora  la  pandemia.  Per  questo  le  parole  contano. Invece  a  volte  siamo  un  po’  banali, superficiali.  Vale  anche  per  me,  naturalmente… Riflessioni  che  dovrebbero  fare  parte  da sempre   del   patrimonio   intellettuale   di un  cattolico…

I  cattolici  sono  indietro:  da  molti anni  sembra  non  siano  in  grado  di generare  più  nulla;  sono  completamente   appiattiti   sulla   legislazione, quando   va   bene,   e   dall’altra   parte sulla   conquista   del   potere.   Quella non  è  la  storia  cattolica.  Dicevano  i padri  della  Chiesa:  fermati  e  arriverai prima. Questo  non vuol dire non impegnarsi.  Ma  c’è  una  bella  differenza  tra  il  produttivismo  e  il  generare.  Generare  è  una  postura  che  richiede   il   desiderio   di   mettere   al mondo,  richiede  il  prendersi  cura.  E il  lasciare  andare  ciò  di  cui  ti  sei  preso   cura.   Il   produttivismo,   che   è quello  che  determina  la  nostra  incapacità  a  stare  fermi,  spinge  a  moltiplicare  indefinitamente  le  cose,  ha  a che  fare  con  il  nichilismo.  Certo  non con  la  salvezza,  che  invece  ha  a  che fare  con  la  pienezza  della  vita.

Ricorda  da  vicino  la  dicotomia  produrre – c o n s u m a re . . . Un’altra  dicotomia binaria.

Per un trinitario  come  me,  gli  ultimi  30  anni sono  stati  un  disastro.  Non  possiamo  continuare  a  produrre  per  consumare.   Io   credo   al   generare:   cosa vuole  dire  questo  nelle  forme  economiche,  nelle  forme  sociali,  nell’educazione?  Io  spero  che  andremo  oltre il  tempo  dello  studio  e  del  lavoro.

C’è  un  tempo  in  cui si  studia,  si  studia,  si  studia…  E  poi  c’è  un  tempo in  cui  si  lavora.  Questa  non  è  la  nostra tradizione.  Prima che scoppiasse l’epidemia,   ho   avuto   la   fortuna   di vedere  una mostra  su Raffaello.  Raffaello  muore  a  32  anni  e  non  è  che prima  si  è  messo  a  studiare  e  poi  ha fatto  quello  che  ha  fatto.  Caravaggio,  che  è  nato  dalle  mie  parti:  non è  che  prima  ha  studiato  e  poi  si  è messo  a  fare  il  Caravaggio.  Michelangelo.  Leonardo. Vado  avanti? Lucio  Dalla.  L’idea  che prima studi così    poi    troverai lavoro    la    trovo un’idea  idiota.  Vale  fino  all’università,  mondo  di  cui  tra  l’altro  anche  io faccio  parte.  Questo  tempo  non  ci dice  di  riconnettere  le  cose,  non  ci richiama  al  simbolo.  Certo,  bisogna sempre  studiare,  durante  tutta  la  vita.  Ed  è  importantissimo  avere  un tempo  particolarmente  dedicato  allo studio.  Ma  non  si  può  far  andare avanti  i  ragazzi  fino  a  25  anni.  È una  follia.  A  proposito  di  perversioni  sociali:  in  Italia  si  esce  di  casa  a 34  anni,  le  sembra  normale?  E  perché non  si esce?  Perché la casa  è stata  un  “appartamento”,  perché  siamo ossessionati  dalla  certezza  e  dalla  sicurezza.  Però  vede,  questo  tempo  è ambivalente: ci  può spingere  ad usare  forme più  profonde, più  umane, o ci   spingerà   a   rinchiuderci   di   più, perché  la  paura  fa  l’effetto  contrario.

Personalmente,  cosa  le  sta  insegnando questa  emergenza?

La   dico   così:   mi   è   apparso   più evidente  che  se  non  includo  la  morte nella  mia  vita  non  vivrò.  Che  non posso   rimuoverla.   E   che   se   voglio chiamarla sorella, la  morte, devo trovarci  un  senso  profondo.  La  morte sfida  la  mia  vita.  Ma  non  nel  senso di  vittoria  o  sconfitta:  o  diventi  di più  quello  che  sei  o  lo  diventi  meno.

Poi  un’altra  cosa. Io vivo in  una piccola  comunità  di  famiglie:  ringrazio Dio  di  aver  visto  i  figli  reagire  con intelligenza.  Ho  imparato  che  i  ragazzi  hanno  molto,  dentro  il  cuore, se  sono sfidati  da  cose  grandi. I  miei tre  figli,  il  quarto  non  vive  con  noi, hanno  reagito  molto  bene.  Questo mi  ha  dato  molta  fiducia.  Non  sono degli  “sdraiati”,  ecco.  Li  ho  visti  far da  mangiare,  darsi  da  fare  per  la  madre  che  stava  male,  darsi  da  fare  per gli  altri,  pulire,  andare  a  fare  la  legna,  usare  l’ironia.  Cerco  di  volere molto  bene  alle  nuove  generazioni…forse  anche  perché  c’è  molta  gente che  ha  voluto  bene  a  me  quando  ero piccolo.  Bisogna  avere  il  coraggio  di sfidarli  i  giovani,  perché  la  vita  è  un dramma  che  ti  sfida.  Per  questo  mi arrabbio  quando vedo  sistemi educativi  binari  che  separano  il  tempo  della  responsabilità  dal  tempo  dell’apprendimento.  È  un  errore  enorme. E   il   più   grande   errore   del   “vecchio mondo”,  ammesso  che  ce  ne  sarà  uno nuovo? L’aver  separato  il visibile  dall’invisibile  e  l’aver  separato  il  tempo  dall’eternità.  L’uomo  è un  essere tempiterno  e  la  realtà  è  fatta  di  visibile  e invisibile.  Io  sono  stupito  dai  miei fratelli credenti.    Noi    questo    nel “Credo”  lo  diciamo  ma  non  sappiamo  quello  che  diciamo.  Non  diciamo  “creatore  di  tutte  le  cose  visibili e  invisibili”?  Ma  noi  non  ci  crediamo più. Crediamo  che le cose invisibili  siano  quelle  che  prima  o  poi  al microscopio    diventeranno visibili. Ma non è così.  Il grande peccato da cui   proveniamo   è   la   separazione. Diavolo,  “diaballo”,  vuol  dire  separatore.  Symballo  vuol  dire  ciò  che

unisce.    Noi    abbiamo    bisogno    di azioni  simboliche, di  pensieri simbolici,  di  parole  simboliche.  La  parola “simbolo”  oggi  è  rubricata  come  “significato”,  “segno”.  Invece  il  simbolo  è  vivente.  La  parola  è  simbolica, l’azione  è  simbolica.  Abbiamo  bisogno  di  azioni  politiche  simboliche, di  azioni  economiche  simboliche,  di azioni  spirituali simboliche,  di azioni culturali, simboliche. Qui siamo molto  miseri,  molto  scoperti.  Corriamo dietro alle  procedure, ai processi, all’analisi.  Questo  è  il  grande  peccato.  Non  perché  le  procedure,  i  processi  e  le  analisi  non  siano  importanti,   ma   non   possono   essere   l’unico sguardo  sulla  realtà.

Abbiamo  sentito  tanti  discorsi,  tante  dichiarazioni,  tante  storie,  in  queste  ultime   settimane.   C’è   una   frase   che   l’ha colpita  di  più,  negativamente  e  positivamente?

“La   scienza   ci   salverà”:   la   trovo una  frase  idolatrica,  stupida,  contro la   stessa   scienza.   La   scienza   è   un metodo  di  osservazione  della  realtà. Invece  la  stiamo  facendo  diventare “la”  verità.  Lo  trovo  un  grande  errore.  Tra  l’altro  con  interessi  enormi dietro,  perché  è  chiaro  ormai  che  si parla   di   tecnoscienza   e   di   tecnoscienza-business.  Il  grande  dramma in  Lombardia  è  stato  questo.  La  politica  sanitaria  che  è  stata  fatta  nei ultimi  35  anni  in  maniera  assurda,  lasciando  tutti  i  territori  scoperti,  ha portato  dalle  mie  parti,  a  Bergamo, a  migliaia di  morti, dico  migliaia, almeno   il   triplo   di   quelli   dichiarati.

Quanto  accaduto è  conseguenza della   centralizzazione   delle   operazioni tecniche,  che  consente  grandi  affari. La  frase  invece  che  mi  ha  colpito  di più  in  positivo  è  quella  legata  a  una fotografia  che  veniva  da  un  vicolo  di Napoli,  nella  quale  c’era  un  cestino appeso   con   un   foglio,   dove   c’era scritto:  “Chi  può  metta,  chi  non  può prenda”. In  questa semplice affermazione  popolare  c’è  quasi  tutto.  C’è  il mistero  della  bellezza  di  chi  siamo  e di  quello  che  possiamo  essere.