LETTORI ED EDITORI DI SPIRITO: LE PROPOSTE DEI CATTOLICI TRA LE MACERIE

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LETTORI ED EDITORI DI SPIRITO: LE PROPOSTE DEI CATTOLICI TRA LE MACERIE

16.05.2020
a cura di Velania La MendolaC’è un’immagine iconica nella storia dell’editoria. Quella di Cesare Pavese che dopo i bombardamenti del ’43 si reca alla sede dell’Einaudi e, tra le macerie dell’ufficio, tolti i calcinacci dalla scrivania, inizia a correggere le bozze, come ogni giorno. La pandemia non è paragonabile a una guerra, ma le ferite ci sono e le macerie pure. Mentre per la prima volta dalla sua Fondazione il Salone del libro di Torino è stato rinviato e viaggia instreaming, i dati dell’Osservatorio sull’impatto Covid-19 dell’AIE dicono che la crisi economica rischia di decimare la piccola e media editoria. La crisi dell’editoria non è però una novità, si è solo aggravato un malessere che negli ultimi anni ha colpito anche il consumo di libri religiosi e di spiritualità. Riprendendo il filo del dibattito sull’editoria cattolica sviluppato su VP Plus nel 2018, abbiamo raccolto pareri e proposte per una nuova ripartenza. Di seguito i contributi di Roberto Cicala (direttore Interlinea), Lorenzo Fazzini (direttore EMI), Maria Elisabetta Gandolfi (Caporedattrice rivista Il Regno) e del sacerdote e scrittore Giuliano Zanchi (direttore della Fondazione Bernareggi).

PROPOSTE CONCRETE PER COSTRUIRE SULLE MACERIE
di 
Lorenzo Fazzini (EMI)

«Resteranno solo macerie. Ma da lì si potrà costruire qualcosa di nuovo». La recente, candida ammissione di Daniele Rocchetti, organizzatore della rassegna Molte fedi sotto lo stesso cielo di Bergamo, lì per lì mi ha causato un forte sconforto. Sensazione che tanti, nel mondo culturale, artistico, editoriale, musicale, teatrale, sportivo… stanno provando, credo. Come la sto provando io, da quasi otto anni direttore di Editrice missionaria italiana e da quest’anno consulente del Salone del libro di Torino (ahimè, doveva svolgersi proprio in questi giorni…) per il settore religioso.

Già, che ne sarà di eventi pubblici, rappresentazioni teatrali, cinema, film, partite, incontri, convegni, dibattiti, presentazioni di libri, reading, … in questo lungo “dopo-Covid19”? Infatti, sulla possibilità di incontrarsi in pubblico oggi si gioca molta della trasmissione culturale, in Italia. Il detto “una città, un festival” era un dato di fatto: in quasi tutte le città italiane è sorto di recente un evento culturale capace di attirare migliaia di persone.

Se restringiamo la nostra attenzione al mercato del libro religioso (il 6% del fatturato generale), ambito al quale il mondo cattolico dovrebbe essere particolarmente sensibile (attraverso il libro si trasmette molta di quella cultura spirituale e teologica che costituisce l’innervatura della fede cristiana), la situazione si fa ancora più drammatica. Due numeri danno l’idea della disfatta: nel 2019 (ultimo dato disponibile) il mercato del libro religioso segnava un – 44% di fatturato rispetto al 2013, un dato ancora peggiore del – 33% del mercato in generale. Se guardiamo più da vicino il mondo delle librerie, anche qui i riscontri sono negativi: a mo’ di esempio, le Librerie Paoline saranno 15 (qualche lustro fa erano 70) tra meno di 5 anni. Da notare: il 66% dei libri religiosi vengono venduti in librerie religiose. Se spariscono, pure i libri si perdono per strada…

E dunque. Cosa si potrà costruire di nuovo sulle macerie? Forse quella che avremo davanti a noi – editori cattolici, mondo ecclesiale, gerarchia ecclesiastica – sarà l’ultima occasione per attuare quella “pastorale della lettura” che persone molto più qualificate di me – un nome, Giuliano Vigini – hanno da anni invocato. Un modo perché il “dare ragione della vostra speranza” possa realizzarsi ancora. L’articolazione intellettuale della fede non è questione cara solo a qualche intellettualoide. E’ un aspetto che dovrebbe stare a cuore a tutta la comunità dei credenti. Pena il pensare che solo una visione spiritualista e devozionale possa essere il volto futuro del cattolicesimo.

Guardiamo le possibilità che un domani (di normalità post Covid) avremo dinanzi a noi. Ogni chiesa locale è coinvolta in un’attività di formazione imponente: corsi di formazione per catechiste/i, per responsabili Caritas, per il laicato impegnato; incontri pubblici su temi di attualità (economia, geopolitica, …); assemblee diocesane di inizio e fine anno; corsi di formazione per presbiteri; corsi di aggiornamento per religiosi/e. Insomma, un’“industria” della formazione che ha dell’imponente in termini numerici. Per non dire al livello “inferiore”: decanati, vicariati, unità pastorali, parrocchie. Parliamo di decine se non di centinaia di migliaia di persone che si radunano (si raduneranno, si spera) attorno a un ideale. Ebbene, tutto questo movimento di incontri, conferenze, testimonianze, corsi, eventi, è una mastodontica occasione per l’editoria cattolica. E quest’ultima è una manna dal cielo per il corpo ecclesiale. Ad una condizione: che nasca un’alleanza vera, fattiva, concreta tra le parti.

Mi spiego con un esempio sperimentato di persona. Lo scorso anno l’ufficio diocesano per la scuola di Bologna è ricorso al Festival Francescano per pensare, organizzare e realizzare un corso di aggiornamento per docenti di IRC. Il Festival ha chiesto ad Emi come relatore il pedagogista Johnny Dotti, nostro fresco autore. Il quale ha tenuto la sua relazione (apprezzata): l’occasione è stata proficua per pubblicizzare il suo ultimo libro, messo in vendita in sala: 40 copie vendute. A costo zero. Tutti ne hanno beneficiato: l’ufficio diocesano ha organizzato un evento di qualità; il Festival ha avuto un pubblico prestabilito; l’editore ha intercettato nuovi lettori. Insomma, tutti contenti.

Da questo esempio traggo tre idee concrete per costruire qualcosa di nuovo nel prossimo futuro:

  1. una cabina di regia per una decina di diocesi che vogliano farsi pioniere di questo modo di lavorare in ambito formativo-culturale, cui aggiungere gli editori che vorranno e alcune librerie di riferimento. Obiettivo, programmare un’annata formativa pensandola e organizzandola tenendo presente autori e i loro libri. Se questa manovra potrà estendersi alle oltre 200 diocesi italiane per 5/6 eventi ogni anno per ciascuna diocesi, è immaginabile il numero di possibili lettori che si possono raggiungere.
  2. Perché non ipotizzare che ogni diocesi lanci, come già alcuni movimenti ecclesiali fanno (vedi CL), il proprio “libro del mese”? Un testo di riferimento di varia natura (un romanzo, un saggio, una testimonianza, un libro di spiritualità…) che viene reso accattivante tramite i social network?
  3. Intorno al libro del mese si potrebbero creare dei gruppi di lettura sulla falsariga di quelli che stanno affollando biblioteche e librerie d’Italia, solitamente intorno a romanzi “generalisti”.

Perché non provarci? Tre proposte, fattibili e concrete, perché da una sinergia pensata, studiata, condivisa tra editori, mondo cattolico e librerie possa nascere un piccolo germe di novità sulle macerie che il coronavirus causerà anche alla cultura cattolica del nostro Paese.

 

CONTRO IL PATETICO. UN GRIDO DI DOLORE VERSO IL LETTORE DI SPIRITO
di Roberto Cicala (Interlinea)

«Si prepara una nuova forma di sensibilità alla miseria; sta per nascere un’esperienza del patetico» è una frase provocatoria di Michel Foucault tornata in mente in questi giorni di giuste lamentazioni sulla crisi dell’industria culturale al tempo del Coronavirus. Chi vive la crisi dell’editoria sulla propria pelle, nel senso che tra le sue mani si sbriciolano in poche settimane risorse personali raccolte a fatica in molti anni, comprende meglio di altri che tutto serve a superare la crisi ma non quel «patetico» di cui parla il filosofo di Poitiers e che si avverte molto, troppo, in giro, tra tv e social. Lo credo proprio per l’editoria, quel settore che in rari casi raggiunge soddisfacenti economie di scala tipiche dell’industria di cui fa parte ma neppure non può vivere soltanto di quell’artigianato intellettuale che ne è la base. Così, di fronte al grido di dolore dell’Aie (marchi sul baratro del fallimento, bruciati 20mila titoli, 40milioni di copie e 2500 titoli da tradurre) è giusto non piangersi addosso, non pensare di trovare soluzioni dietro l’uscio delle librerie che riaprono ma a fatica e vuote: conviene navigare a vista e chiedersi con Isaia «Sentinella, quanto resta della notte?»

Che fare? Qualcosa di ideale, qualcosa di progettuale e qualcosa di pratico.

Sul piano teorico sta l’auspicio di sostenere le case editrici sostenendo innanzi tutto i lettori, opportunamente al centro dell’ancora fresco centenario di Vita e Pensiero, cioè facendoli crescere, coltivandoli come gli orti casalinghi scoperti da molti italiani in queste settimane; usare resilienza per sventare il rischio della vocazione cattolica al ghetto, anche in libreria.

Serve però un progetto (è una necessità) perché altrimenti la frammentazione di centinaia di editori e librerie ogni anno con migliaia di novità d’ispirazione religiosa diventa un macigno schiacciante. Volontari della lettura in parrocchia? Banchetti come ai vecchi tempi? Ma dovrebbero essere le diocesi a dare una linea e, prima di tutto, a crederci. E perché non immaginare di riprendere il Progetto culturale della Chiesa italiana puntando sulla lettura? Un’idea praticabile potrebbe essere il “kit del lettore di spirito”, con un libro scelto tra le novità dell’anno e donato la domenica, con locandine, segnalibri, incontri non calati dall’alto. Aveva ragione Virginia Woolf: «talvolta penso che il paradiso sia leggere continuamente, senza fine».

Ci dev’essere anche un livello pratico, certo: è la vita di tutti questi giorni tra riunioni in videoconferenza e libri sempre più smaterializzati, come le professionalità che ci stanno dietro. Non è soltanto un discorso da addetti ai lavori: ripensiamo la filiera (chiediamo tariffe speciali per la spedizione di pacchi tracciati da parte di editori e librai, sollecitiamo acquisti pubblici effettivi per le biblioteche scolastiche, allarghiamo la detraibilità fiscale che c’è per la palestra del fisico ma non del tutto per quella della mente e dello spirito, cioè il libro). Nel loro piccolo, poi, gli editori possono selezionare il più possibile le uscite ripartendo dai titoli del catalogo, come la giustamente tanto citata Peste di Camus che ci offre indicazioni per il “dopo” (dopo libri invenduti, librerie vuote, social indifferenti a una certa Parola): «bisogna restare, accettare lo scandalo, cominciare a camminare nelle tenebre e tentare di fare il bene».

 

CULTURAVIRUS: PER LA CHIESA LA CULTURA NON È UN LUSSO
di Giuliano Zanchi

Chi circospetti, chi irrequieti, a seconda di dove si abita e di come ci è andata, ci incamminiamo verso una confusa fase post epidemica, accompagnati da quel brusio sociale che rende anche una nazione di sessanta milioni di abitanti un paesino di provincia dove tutti dicono la loro e nel quale fluttuano, come sugheri in acqua che un momento sono su e un momento dopo sono giù, le varie priorità di ogni rinascita; ognuna coi suoi sponsor, i suoi testimonial e i suoi avvocati al tavolo delle trattative.

In questo andare e venire degli oggetti sociali bisognosi di attenzione, riscatto e rilancio, viene sempre anche l’attimo della cultura (sempre più assimilata al turismo) e con essa i libri, l’editoria e le librerie, riaperte quasi per prime forse perché strasicuri che non sarebbero certo venuti da lì seri problemi di assembramento. Le case editrici sono state all’ossigeno delle vendite online, hanno messo in sosta la programmazione e si sono dedicate alla ‘letteratura dell’istante’, con una prontezza che ha reso omaggio al protagonista del momento (il mestiere dell’editore è anche quello di non perdere contatto con la realtà).

Ai vari significati e alle molteplici conseguenze della sua irruzione il ‘mondo della cultura’ non smetterà di prestare attenzione, cercando nel contempo di riprendere le fila del proprio compito nelle difficili condizioni dettate soprattutto dalle complicazioni economiche che non sarà facile riassorbire tanto presto. Alle necessità di una tale ripresa, cui certe sceneggiature giornalistiche amano conferire l’aura drammaturgica di una ricostruzione postbellica, dovranno partecipare un po’ tutti, ricordandosi che accanto alla sacrosanta necessità di mettere a posto i conti (anche Teresa d’Avila soleva dire che con lo spirito santo e i soldi si può fare molto), si presenta il compito, in questo momento particolarmente dirimente, di accompagnare culturalmente quegli umori che segneranno il nostro futuro e che non saranno gli spaventi di oggi, nemmeno i disagi di domani, quanto piuttosto i rancori di dopodomani, quei risentimenti sociali in cui spesso i traumi evolvono in reazione. Una tale compito ha molti strumenti. Ma i libri, persino dopo questa recente immersione collettiva dentro l’acquario dell’infosfera, restano ‘sacramenti’ indispensabili per un ‘ristoro del pensiero’ che andrà prescritto assieme a un attesissimo vaccino. Non lo immaginerei come mera evasione letteraria e nemmeno come intellettualismo a oltranza, ma come quell’esercizio di continua misurazione della realtà che un tempo si chiamava ‘sapienza’ e che consiste soprattutto nel saper calibrare le differenze qualitative in cui l’esistenza (per ciascuno) e la storia (per tutti) non smettono di determinarsi. Farsi l’occhio per la sostanza. Non prestare orecchio alla qualunque. Giornali e televisioni hanno ritmi troppo concitati per poter essere veri diffusori di una sapienza necessaria. Il tempo lungo dei libri, assieme ai rituali di cui essi torneranno a essere circondati, conferisce loro qualcosa di più congeniale, che credo si trasformi in una vera responsabilità.

Sotto questo profilo il cosiddetto ‘mondo cattolico’ dovrebbe vedersi già in prima fila, in testa al corteo, capofila di un esercizio di comune discernimento cui saprebbe di poter portare materia di prima qualità. Qualcuno indubbiamente il suo compito lo onora. L’editoria cattolica prova a fare la sua parte. Ma con qualche attrito che sembra trattenerne lo slancio o limitarne la lungimiranza, e in meccanismi di assegnazione dello spazio che la confinano di norma nella nicchia dello scaffale religioso (accanto alla letteratura di viaggio e appena prima dell’esoterismo). La chiusura a cascata delle sue librerie resta un processo di estinzione che nella chiesa sembra non preoccupare nessuno, anzi entrare in quel capitolo di sobrietà economica che deve imparare a disfarsi delle cose non essenziali.

In questo modo i roboanti proclami di una nuova evangelizzazione e di una chiesa in uscita si riducono a una carità sociale facilmente attaccabile e a una vibrante militanza kerigmatica che ha solo un passo da fare per diventare un evangelismo made in USA. Negli anni venti del secolo scorso la chiesa italiana ha ‘inventato’ una Università, una casa editrice e una serie di riviste associate, perché capiva che fuori dal comune scambio culturale la causa evangelica non ha possibilità di farsi realmente valere come parola buona e che non poteva stare nel consesso di una moderna società civile come una semplice badante delle tradizioni. Questa fase di ripresa in uscita da un’esperienza così traumatica, potrebbe (illudersi non costa niente) valere anche per la chiesa come occasione di una nuova consapevolezza interna circa la natura non voluttuaria dei suoi strumenti culturali. A partire dalle case editrici, dai libri, dalle parole che non cadono mai senza portare frutto. Se poi il problema riguarda anche il bacino dei lettori cattolici che si sta significativamente contraendo, questo sarebbe ragione per qualche domanda in più. Forse persino motivo per riattivare energicamente le nostre disponibilità editoriali e andare sul serio in periferia.

 

DISTILLARE LE PAROLE
di Maria Elisabetta Gandolfi (Rivista Il Regno)

Come la gran parte delle riviste, anche al Regno la pandemia ha imposto un nuovo ritmo di lavoro. Abbiamo scritto, fatto editing, corretto, ci siamo incontrati su mille piattaforme con quotidiane telefonate… il tutto comodamente da casa, e – un po’ meno comodamente – dilatando, come molti dei lavoratori da remoto, il lavoro sull’intera giornata. Abbiamo anche perfezionato qualche conoscenza informatica. Come ovunque nella blogosfera, il lavoro on-line è parallelamente esploso, sia perché noi stessi ci siamo sentiti sospinti a intervenire dall’onda dell’emergenza sia perché molti, anche grazie a un ritrovato (ancorché forzato) tempo disponibile, hanno offerto e scritto storie e riflessioni d’ogni genere: un tempo nuovo da vivere e da pensare e soprattutto un tempo successivo da immaginare ex novo.

Per ogni testo pubblicato, tuttavia, si è fatta sempre più pressante la domanda: è qualcosa di originale? Che cosa aggiunge al dibattito quasi caotico della Rete e in particolare al vociare dei social? Che cosa rimarrà di queste tante parole spese? Se da un lato abbiamo percepito maggiormente la vicinanza dei lettori – e qualcuno ne avrebbe gradita ancor di più, suggerendoci di fare trasmissioni radiofoniche! –, dall’altro abbiamo compreso meglio la nostra mission legata alla parola.

Oggi più che mai occorre distillare e misurare le parole che usiamotrattenersi dal pubblicare a ogni costo; limare i concetti e quindi discuterne con gli autori (e non sempre è facile!); avere molto ben chiaro un disegno editoriale per ogni numero che presenti una coerente griglia interpretativa.

Un bellissimo articolo che stiamo per pubblicare del teologo spagnolo Andrés Torres Queiruga cita una frase di Socrate: parlare male reca «danno alle anime». Ripulire le parole, selezionarle non è semplicemente dar sfoggio di erudizione o di mera ricercatezza lessicale, ma significa interrogarsi ogni piè sospinto se esse sono coerenti con il loro significato. Le parole non sono indifferenti.

Ecco, forse il coronavirus ha smascherato i credenti in particolare su un compito spesso enunciato e un po’ meno frequentato. La parola e la Parola plasmano: in tutti i media cattolici (carta, web, social, TV) non bastano le buone intenzioni, troppo spesso anche noi rischiamo di consumarle sprecandole…

a cura di Velania La Mendola