Mons. Delpini: «Si può essere prossimi anche stando lontani. Il dopo? Una grande festa con i ragazzi in oratorio»

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Delpini: «Si può essere prossimi anche stando lontani. Il dopo? Una grande festa con i ragazzi in oratorio»

Mario Delpini: «Vorrei porgere a tutti le condoglianze. E assicurare le famiglie che nelle nostre preghiere sono presenti tutti i morti di questa terra ambrosiana»

Delpini: «Si può essere prossimi anche stando lontani. Il dopo? Una grande festa con i ragazzi in oratorio»
È salito sulle terrazze del Duomo per pregare, da solo, ai piedi della Madonnina. Sì è rivolto alla città e al mondo accademico dalla «panchina del mendicante» di piazza Fontana. Ha celebrato il Pontificale davanti al prefetto, al sindaco e al governatore, uniche presenze nella cattedrale. Più che attraverso i media, l’arcivescovo di Milano, Mario Delpini, ama parlare alla sua comunità attraverso i gesti. Ma alla vigilia di una Pasqua diversa da qualsiasi altra, non si sottrae a qualche riflessione su questo momento particolare.

Eccellenza, da settimane milioni di persone convivono con paure e sofferenze alle quali nessuno era preparato. Quali motivi di conforto è possibile trovare in questa situazione?
«Per ottenere il vino l’uva deve essere torchiata, deve essere schiacciata con violenza. Forse questo è il conforto di questi tempi: l’umanità schiacciata può dire la sua verità, l’umanità spremuta rivela quello che la banalità ordinaria nasconde. Il meglio di sé. Anche il peggio però. Le chiese non sono chiuse, ma non si può condividere l’esultanza, non si può condividere il lutto. Sotto la pressione, nel torchio che spreme e schiaccia, si rivela un desiderio di comunità, forse un desiderio di fede celebrata insieme. Anch’io mi sono sentito nel frantoio: non della fatica, non della malattia; piuttosto delle domande, delle invocazioni, delle desolazioni inconsolabili: non so se ne sia venuto un qualche olio per lenire ferite».

«Condividere. Stare insieme. Accettare d’essere limitato nei movimenti. Come tutti. Stare qui. Pregare. Ecco: dedicare tempo alla preghiera, per imparare ancora a riconoscere la presenza di Dio nella città, dove hanno dichiarato la sua assenza. Un vescovo non ha altro da dire che il Vangelo. Di quello che io ho fatto e detto si sono interessati alcuni strumenti di comunicazione. Vorrei però dire che ho fatto quello che hanno fatto tutti i preti e tutti i cristiani della città: condividere e pregare».

E quale gesto dovrebbero compiere i milanesi nelle loro case in questa Pasqua così particolare?
«La cosa più sorprendente sarebbe la gioia. Non so se i milanesi ne saranno capaci. In queste condizioni c’è una sola possibilità che vi possa essere una vera gioia mentre si è chiusi in casa: l’esperienza di essere amati e di essere capaci di amare. In sostanza la presenza di Gesù. Chissà se almeno lui riesce a entrare?».

Tanti anziani sono morti nelle residenze che li ospitavano, portati lontano senza un funerale per elaborare il lutto. Che dire di fronte a una generazione falcidiata e alla morte senza dignità?
«La morte è un passaggio misterioso, il morire è un momento drammatico. Chiamano la mamma, a ogni età, anche quando la mamma è morta da trent’anni. Forse è lei che li chiama e li aspetta dall’altra parte… I familiari che non hanno potuto stare vicini al morire, che non possono elaborare il lutto, vivono — credo — un dolore e un senso di colpa che diventa come un tormento. Io credo che ci siano forme di prossimità che non coincidono con la vicinanza. Si può essere estranei anche da vicino e si può essere prossimi anche da lontano. Io credo nella comunione dei Santi: una prossimità che non è né fisica né psicologica, ma spirituale. È una verità troppo dimenticata. Ma certo il bacio, la carezza non hanno surrogati. Vorrei almeno porgere a tutti le mie condoglianze e assicurare che nella preghiera della chiesa, dei preti e del vescovo sono presenti tutti, tutti i morti di tutta questa terra ambrosiana».

Si parla di errori fatali commessi in questa lunga emergenza: di fronte a una situazione così delicata, qual è il tempo giusto per affrontare il tema delle responsabilità?
«Non saprei. Che cosa si intende per “affrontare il tema delle responsabilità”? Io non so precisare la distinzione tra “errori”, “colpe”, “reati”, “peccati”, “trasgressioni”».

Si riscopre il valore di alcuni ruoli: il medico e l’infermiere, ma anche la cassiera e il fattorino. È solo per necessità o la riduzione della frenesia consente di osservarci meglio?
«In una società complessa si rischia di perdere le tracce delle persone. L’impazienza per gli adempimenti, il groviglio delle procedure, l’inafferrabile localizzazione della responsabilità, la tirannide del protocollo, della rendicontazione, dell’ispezione, della certificazione e cose simili, mettono filtri tra le persone. L’emergenza può costringere a semplificare. Allora il rapporto personale prevale e lo si percepisce con evidenza. Viene persino da dire: “grazie”, “scusi”, “per favore”, al medico, all’infermiere, alla cassiera, al fattorino, all’impiegato delle poste, a chi lavora in cimitero, al poliziotto, al prete».

Stiamo anche assistendo a molte manifestazioni di solidarietà. È un impulso che scatta nelle emergenze?
«Della vita ordinaria della città e della gente di questa terra ho sempre apprezzato manifestazioni di solidarietà ammirevoli. Sempre. Nell’emergenza e nell’ordinario. Il numero delle associazioni che si prendono cura degli infiniti bisogni, la dedizione dei volontari, la sollecitudine minuta del “buon vicinato”, con i gesti minimi di attenzione agli altri, descrivono che cosa tenga insieme la società. I luoghi comuni sull’egoismo, l’indifferenza, la conflittualità dicono solo un aspetto della città. Perciò poi si rimane sorpresi scoprendo quello che c’è sempre stato, che è sotto gli occhi di tutti. Ovvio come il fatto che premendo un tasto si accenda una lampada».

Il futuro porterà inevitabili difficoltà economiche. A farne le spese saranno soprattutto i più fragili. Potrebbe essere l’occasione per ripensare a politiche che riavvicinino segmenti di umanità rimasti indietro?
«L’epidemia è una disgrazia. Di per sé non diventa una occasione, a meno che non ci siano persone che l’interpretino come vocazione e responsabilità. Non basta l’epidemia, ci vuole anche una saggezza, o almeno un po’ di buon senso».

E come immagina la ripartenza della chiesa dopo settimane di parrocchie ferme e messe senza fedeli?
«Mi immagino, o almeno mi auguro, una grande festa. Finalmente potremo celebrare insieme! Cantare, darci il segno della pace, abbracciarci per esprimere le condoglianze a chi ha sofferto un lutto! Potremo celebrare le prime comunioni e le cresime, i matrimoni e i battesimi! Sui campi degli oratori torneranno a giocare i ragazzi, nelle ore di catechismo riprenderanno a fare confusione invece che silenzio, nelle scuole d’infanzia i bambini potranno piangere perché la mamma va via, i ministri incaricati andranno a trovare i malati nelle loro case. Insomma una grande festa».

Ha un messaggio di speranza per questa Pasqua?
«La speranza è una virtù timida, bambina, semplice. La nostra società, così adulta, presuntuosa, efficiente preferisce le previsioni, la programmazione, le proiezioni. Non so se è disponibile a un messaggio di speranza. Forse preferisce ripetere uno slogan tipo “Andrà tutto bene”. Mi sembra che questo sia come il grido di guerra che si ripete quando si gioca una partita per farsi coraggio. Non ha nessun contenuto, ma serve per darsi forza. Il coraggio è necessario. Quello sostenuto da un grido di guerra è un po’ artificioso, ma può servire anche quello. La speranza, invece, vive della fiducia nella promessa, non negli slogan. La promessa è quella di Dio che vuole condurre il suo popolo nella terra promessa e convince a mettersi in cammino. La speranza, più che una rassicurazione, è una vocazione: chiama a mettersi in cammino per arrivare là dove Dio promette la vita e la gioia nella comunione con Gesù, risorto dai morti. Il mio augurio è quindi “buona Pasqua!”, cioè auguro l’incontro con Gesù risorto e la sua promessa che convince a mettersi in cammino».